"Il rigassificatore a Brindisi potrebbe ancora farsi"

29.03.2012 00:13

rigassificatoreSul progetto del rigassificatore di Brindisi nell’area di Capo Bianco, British Gas Italia ha denunciato gli 11 anni di stallo politico-amministrativo per i permessi, annunciando di rinunciare all’investimento da 800 milioni di euro e circa mille posti di lavoro, ma nelle prossime settimane la storia potrebbe cambiare e confermare a molti che le dichiarazioni dell’ad Luca Manzella a Il Sole 24 Ore sono state per lo più uno sfogo per spingere il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, a convocare dopo due anni di stand-by la conferenza dei servizi definitiva.

L’impianto, se realizzato, avrà una capacità annua di 6 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto (gnl), corrispondenti a 8 miliardi di metri cubi l’anno di gas naturale da immettere in rete e pari al 10% circa del consumo nazionale. Il progetto prevede: un terminale di rigassificazione con due serbatoi di stoccaggio per una capacità di 160mila metri cubi e vaporizzatori ad acqua di mare; un pontile per le navi metaniere sulla nuova colmata sul mare; una zona trappole e un metanodotto agganciato alla Rete nazionale dei gasdotti; una cabina di consegna e un elettrodotto collegato alla rete elettrica esterna al sito.

La vicenda non si è inceppata per dettagli. Tutto si è arenato su due scogli importanti venuti fuori entrambi nel 2007: l’inchiesta penale a Brindisi e la procedura di Valutazione di impatto ambientale (Via). Il 12 febbraio di quell’anno, infatti, la procura di Brindisi, nell’ambito di un’operazione condotta dagli agenti della Digos della questura brindisina e dai militari della Guardia di finanza, pone sotto sequestro la colmata ricavata davanti al porto esterno per l’ipotesi di occupazione abusiva di area demaniale e, con l’accusa di corruzione e falso, fa scattare gli arresti per l’ex sindaco di Brindisi Giovanni Antonino, l’imprenditore marittimo Luca Scagliarini, e i domiciliari per tre ex dirigenti della British Gas perché, come spiegato dall’allora procuratore brindisino, Giuseppe Giannuzzi, «sarebbe stata costituita una società di comodo che si chiama Iss, riconducibile a Antonino e a Scagliarini, alla quale sarebbero stati fatturati da British Gas lavori che poi non sarebbero stati eseguiti, per agevolare l’iter di approvazione del rigassificatore».

La Via al rigassificatore, invece, è stata approvata soltanto a luglio 2010 perché nel 2003 il governo Berlusconi, in accordo con la Regione Puglia presieduta allora da Raffaele Fitto, dà il via libera al progetto (decreto 17032 del ministero Attività produttive) tramite una legge semplificativa che ne ammorbidiva il vincolo e al contrario invece di quanto prescritto dalle direttive europee (337/85 sulla Via e 62/96 sulla comunicazione ai territori). Tant’è che nell’ottobre 2007, dopo che la Commissione europea arriva addirittura a deliberare la costituzione in mora della procedura d’infrazione già aperta contro l’Italia (su ricorso della Provincia di Brindisi), il governo Prodi è costretto a congelare tutte le carte, chiedendo poi all’azienda di adeguarsi ai dettami comunitari.

La sentenza del Tribunale di Brindisi è ora attesa per il 13 aprile prossimo dopo l’ultimo rinvio disposto il 16 marzo scorso per lo sciopero degli avvocati: i giudici dovranno pronunciarsi sulla assoluzione con formula piena per tutte le accuse di corruzione e falso (ormai prescritte) come chiesto dalla difesa, sulla confisca della colmata realizzata sul mare e la revoca delle concessioni come voluto invece dai pubblici ministeri Giuseppe De Nozza e Silvia Nastasia.

Prima della sentenza, però, il progetto dovrebbe incassare un altro tassello importante dell’ampio puzzle burocratico: è il Nulla osta di fattibilità (Nof) richiesto per la seconda volta da British Lng (la società creata ad hoc per il progetto) alla luce delle modifiche all’impianto autorizzativo e che con ogni probabilità sarà rilasciato entro fine marzo dal Comitato tecnico regionale del Comando dei Vigili del Fuoco della Puglia sulla base di un rapporto di sicurezza e dopo l’esame di un gruppo tecnico provinciale, tra cui Regione, Provincia, Comune, Arpa e Inail. L’atto rientra nell’ambito delle procedure di prevenzione degli incendi in attività a rischio d’incidente rilevante secondo la normativa “Seveso”. L’area scelta è, infatti, all’interno di un Sito inquinato di interesse nazionale (Sin) sottoposto a bonifica e in ogni caso in un polo industriale già attraversato da tre centrali termoelettriche, di cui due a carbone (Enel a Cerano e Edipower a Costa Morena) e una a ciclo combinato (EniPower nel Petrolchimico).

Col via libera sul piano della sicurezza e con l’eventuale esito positivo del processo penale in primo grado per British Lng, la strada verso la costruzione dell’impianto sarebbe del tutto in discesa e i tecnici del ministero dello Sviluppo economico avrebbero tre ragioni in più per convocare la conferenza dei servizi Stato-Regioni e decidere così se rinnovare o ritirare l’autorizzazione unica alla costruzione e all’esercizio dell’impianto. Inchiesta a parte, il tavolo ministeriale è atteso in ogni caso dal luglio 2010, da quando cioè i ministeri dell’Ambiente e dei Beni Culturali hanno approvato la nuova Via con una mole di prescrizioni poste, secondi gli esperti, a tutela del territorio e delle popolazioni. Come, in particolare, l’interramento dei serbatoi di stoccaggio non previsto all’inizio: dovranno ora essere nascosti sotto il livello del mare scavando buche da 27,5 metri (3,5 metri quota media fuori terra) per «mitigare l’impatto paesaggistico» e «contribuire ad una ridefinizione delle aree industriali interessate».

Il calendario dei permessi si è allungato però anche sulle disposizioni di Via. A far ricorso è stata la stessa Brindisi Lng che ha chiesto al Tar del Lazio (qui pure i controricorsi di Regione, Provincia e Comune di Brindisi) di annullare i diktat del Mise sulle costose modifiche ai serbatoi e, nel dettaglio, di non sottoporre a ennesima Via il progetto di utilizzo dei materiali di completamento della colmata, incluso il conferimento di quelli inquinati a discarica, qualora i lavori “dovessero interessare materiali in posto sottostanti la colmata già realizzata”. Anche se i ricorsi sono poi diventati di fatto secondari perché nel frattempo l’azienda, con 250 milioni di euro già investiti sul sito, ha deciso sostanzialmente di accettare le nuove misure e, con integrazioni documentali, è riuscita ad ottenere dal ministero dell’Ambiente anche quanto chiesto sulle attività di scavo per interrare i serbatoi.

Il progetto quindi non può dirsi ancora fallito, ma anche se in Galles l’altro “impianto gemello” di British Gas è stato autorizzato, costruito e messo in funzione nel giro di cinque anni, a Brindisi il tempo dei permessi, politica a parte, è volato via anche per tutto questo.

Fonte: www.linkiesta.it

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