
COMUNICATO STAMPA LEGAMBIENTE BRINDISI: All’inizio dello scorso mese di aprile Legambiente ha inviato un documento sui lavori in corso sul lungomare Regina Margherita ed ha allegato una bozza di proposta di riqualificazione redatta dall’architetto Pietro Oresta.
La proposta di Legambiente cercava la migliore compatibilità fra esigenze commerciali e turistiche e valorizzazione in situ di beni archeologici e culturali ed aveva due riferimenti essenziali: da una lato, la realizzazione di una campagna di scavo sistematica che cercasse e documentasse le superfetazioni intervenute nel corso dei secoli sul lungomare di un porto considerato a tal punto dai romani da sostenere che “tre sono i porti sicuri al mondo, giugno, luglio e Brindisi”; dall’altro, la considerazione di equilibri architettonici ed ambientali che hanno contribuito anche al riconoscimento dell’UNESCO quale “Porto testimone di cultura di pace nel mondo”. Anche questo dato avrebbe dovuto imporre una maggiore attenzione alla salvaguardia di luoghi così fortemente storicizzati, ricordando, con la creazione di un’area archeologica, quale ruolo questo lungomare abbia svolto nel corso dei secoli.
Legambiente non pretendeva affatto che la soluzione proposta fosse acquisita come l’unica possibile, ma pretendeva – questo si – una valutazione tecnica da parte delle Soprintendenze competenti ed un confronto a livello istituzionale ben più approfondito di quello che c'è stato. Le Soprintendenze – dispiace rilevarlo – hanno assunto un atteggiamento un po’ pilatesco, mentre, il Commissario straordinario del Comune di Brindisi non ha inteso esaminare soluzioni diverse rispetto a quel progetto che il neoeletto Sindaco si è trovato fra le mani senza condividerlo granché, ma che appare, perfino peggiorato dalla creazione di un insulso marciapiede che rende più pressanti le domande sul destino delle basole di pietra lavica e delle chianche calcaree e che ancor più stridente rende gli squilibri architettonici, culturali ed ambientali nel progetto.
A Brindisi, anche in questa circostanza, non è accaduto ciò che accade da sempre in tutto il resto del mondo: cioè che le basole vengano numerate prima di essere rimosse e riposizionate nello stesso modo.
Il “confinamento” di reperti archeologici fuori dal loro sito naturale ha già prodotto, a Brindisi, effetti negativi ed a volte devastanti (si pensi, ad esempio, alla distruzione della necropoli di via Cappuccini definita “non spettacolare” dall’allora soprintendente archeologico).
Tale confinamento, peraltro, dovrebbe essere frutto di un’analisi sistematica in loco e di una valutazione tecnica puntuale, mentre nel caso specifico sono apparsi fin troppo “frettolosi” studio in situ e scelta finale, tanto più alla luce del fatto che si intendeva pedonalizzare l’intera area.
La pubblica Amministrazione, tanto più, quando riceve ingenti fondi pubblici destinati alla redazione ed alla esecuzione di progetti di riqualificazione urbana ed ambientale, ha il dovere di garantire il risanamento conservativo dei beni oggetto dell'intervento e la loro migliore fruizione. Era ben risaputo che gli scavi nel lungomare avrebbero riportato alla luce reperti di diversa epoca storica e sorprende che il progetto non abbia previsto soluzioni in merito e che le Soprintendenze non abbiano evidenziato in sede di esame del progetto e dal momento di inizio degli scavi, le soluzioni più opportune per garantire la valorizzazione turistica e culturale degli scavi e la possibilità di leggere in situ la storia di questa Città e del suo porto.
Oggi, al posto delle chianche di pietra lavica e calcarea (di cui va immediatamente verificata l'attuale allocazione), che erano parte essenziale di un lungomare su cui insistevano vincoli ambientali, architettonici, culturali a cui si è aggiunto il riconoscimento dell’UNESCO, sono state collocate anonime e francamente brutte basole nuove e, certamente, non si può affidare a pochi reperti rimossi o ad una ricostruzione virtuale la lettura, anche stratigrafica, del valore dei beni rinvenuti in situ. La copertura dei reperti e delle strutture rimasti in situ è avvenuta, in gran parte con teli di “tessuto non tessuto” su cui direttamente è stato posto uno strato di ghiaia, e al di sopra, il basolato, con ciò creando gravi rischi di perforazione dei teli e quindi danni alle strutture archeologiche.
Tutto ciò richiama le responsabilità dirette di chi è chiamato a sovrintendere sulla salvaguardia dei monumenta ed a rappresentare gli interessi della Comunità. Per questo Legambiente si augura, che sia ancora possibile intervenire anche con l'assunzione di atti in autotutela.
Si rende noto, che ci si riserva la possibilità che la presente venga trasmessa all’autorità giudiziaria ed alla magistratura contabile, affinché verifichino la sussistenza di danni e reati eventualmente in corso ed evitino che siano portati a conseguenze ulteriori.
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